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LETTERATURA: “In un mondo che cambia” di Liudmila Ulitkskaya
28 dicembre 2009
di Simona Cappellini


Se nella società russa la priorità sembra essere ormai rappresentata dall’aspetto economico, consumistico e materiale, in letteratura sembra sempre più emergere il desiderio di superare, oltre che sublimare, l’eterna transizione a cui il popolo è stato sottoposto dalle leggi dell’economia e della politica, evidenziandone le infinite assurdità, riscoprendo i valori perduti e facendo affiorare un contesto culturale vivo e fertile, che si riallaccia ai fili che hanno reso eterno il patrimonio letterario degli ultimi due secoli.

Soprattutto nell’ultimo decennio la letteratura russa esterna totalmente ciò che prima, forse anche per orgoglio, veniva maggiormente soffocato: le debolezze, le crisi identitarie, gli sfaceli e il disorientamento, ma lo fa sempre con una punta di cinismo (si pensi a Gary Shteyngart e al suo “Absurdistan”) o di ironia, mai con autocommiserazione. E’ in questo panorama, in mezzo a una moltitudine sempre crescente di autori variegati non sempre facilmente classificabili, che si collocano alcune voci come quella di Ludmila Ultiskaya, che pur rappresentando casi a se stanti vanno a costituire un’occasione di riflessione che va oltre il semplice dissenso.

Autrice poliedrica e di ampie vedute, per anni ricercatrice all’istituto di genetica di Mosca ma costretta ad abbandonare la professione da un sistema oppressivo, Ludmila Ulitskaya è oggi una delle voci più acclamate sia in Russia che in diversi paesi esteri.

Le sue storie, permeate di un caldo umorismo, esemplificano il filo conduttore delle contraddizioni nel comportamento umano, che l’autrice non denuncia né divinizza, ma cerca semplicemente di comprendere in tutte le sue numerose manifestazioni e nei paradossi psicologici, mettendo in discussione gli stereotipi più comuni.

Le scelte di personaggi insoliti nel loro vissuto quotidiano è la migliore rivendicazione nei confronti della stagnazione a cui il popolo russo sembra essere destinato, tra l’amore/odio nei confronti di un passato nostalgico e il vicolo cieco in cui sembra confluire il presente. E’ così che mettendo in risalto l’atteggiamento positivo di personaggi anti-eroi che si riscattano proprio nel coraggio delle scelte dettate dalla loro semplice condizione – donne e soprattutto donne non più giovani, coppie anziane, immigrati, pseudo-artisti – la Ulitskaya confeziona forse una delle risposte più attuali e adeguate nella proliferante narrativa russa dell’universo post-sovietico.

Affrontando in modo originale e ironico temi di vita e morte, amore e perdita, patria e esilio e i rapporti generazionali, tutto sotto il radar delle tante oppressioni, l’autrice ridipinge infatti i suoi personaggi come il frutto positivo di tutta la disfunzionalità del paese. Ridefinisce la figura femminile in “Medea” e in “Le bugie delle donne”, una raccolta di racconti amari e ironici al tempo stesso dove le donne mentono – anche a loro stesse – per opporsi ad una realtà inaccettabile. Ricostruisce una nuova identità russa in esilio in “Funeral party”, quell’identità segnata dall’impossibilità dell’individuo di riconoscersi in una qualche appartenenza. Riscopre in “Daniel Stein – traduttore”, i valori umani al di sopra della fede, e in “Il dono del dottor Kukockij” quelli etici al di sopra delle leggi. E proprio attraverso le storie di personaggi costretti ad alienarsi per proteggersi – nell’alcolismo, come Pavel Kukockij, nella ricerca mistica come Daniel Stein, o nell’amore filantropico di Surik, tutti comunque sempre alla ricerca di un vivere diverso, al di fuori degli schemi – si riesce a leggere forse il comune denominatore della continua trasformazione – difficile a dirsi se in meglio o in peggio – del popolo russo.

Con una scrittura equilibrata e accattivante, piena di parallelismi con la più antica tradizione che trova radici in Checov, Tolstoj, Leskov, Puskin, l’autrice si muove dal novecento ai giorni nostri, alla ricerca dei confini tra fanatismo, fede e umanità che mettono ancora più in evidenza i cambiamenti delle nuove realtà pluridimensionali e le mutazioni dei singoli individui.

In un paese che è un crogiolo di problemi tra cui il divario economico, le violenze xenofobe (i giovani skin-heads russi diffondono su youtube video violenti e propagandistici per scoraggiare l’immigrazione), i conflitti con le vicine ex colonie, ed una percezione della realtà globale distorta, la coscienza è l’unico mezzo di sopravvivenza.

E’ per questo forse che Ludmila Ulitskaya non è solo scrittrice prolifica ma anche intellettuale attivista, che da anni si batte per la difesa di principi di democrazia, tolleranza e libertà con articoli, lettere, progetti. Si è battuta per la difesa della libertà di opinione dopo il caso della Politkovskaya; ha fondato un progetto per l’infanzia con la pubblicazione di libri a sostegno della diffusione di principi di tolleranza. Recente è anche la pubblicazione della corrispondenza, schietta e piena di risvolti umani, tra la scrittrice e l’ex oligarca Mikhail Khodoorkovsky, fondatore dell’organizzazione “Open Russia” in opposizione a Putin ma condannato a molti anni di prigione per evasione fiscale, di cui si è interessata soprattutto per evidenziare le falle del sistema carcerario e giudiziario russo, e gli aspetti umani di un caso che più che da giudicare è da capire.

Liudmila Ulitskaya è nata nel 1943 e oggi vive a Mosca. Dopo una carriera nella genetica inizia a scrivere nel 1989 e pubblica la sua prima raccolta di racconti in Francia nel 1994 (Les pauvres parents). Ha vinto numerosi premi, tra cui il Médicis in Francia, il Booker e il Big Book in Russia, il Grinzane, il Penne e l’Acerbi in Italia, ed è autrice di romanzi, racconti e sceneggiature tradotti in trenta paesi. E’ membro del parlamento culturale europeo, ed ha partecipato ad un progetto interculturale e intersettoriale dell’Unesco di Mosca sull’infanzia (Other, others otherwise).

Dei suoi libri in Italia sono stati pubblicati Sonja (e/o, 1997), La figlia di Buchara, (e/o, 1998), Due per una (Tufani, 2000), Medea (Einaudi,2000), Funeral party (Frassinelli, 2004), Le bugie delle donne, (Frassinelli,2005) ; Il dono del dottor Kukockij (Frassinelli, 2006), Sinceramente vostro, Surik (Frassinelli, 2007). L’ultimo libro, Daniel Stein, traduttore è in preparazione da Bompiani.
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Del carteggio tra lei e Mikhail Khodorkovsky, che colpisce soprattutto per i risvolti umani, una delle cose che maggiormente mi ha colpito è quando lei parla della consapevolezza del proprio percorso che una persona dovrebbe avere e dei propri confini individuali che ognuno dovrebbe saper riconoscere. Pensa dunque che non ci siano solo confini come si pensa genericamente tra giusto e non giusto, ma anche confini individuali da individuare e rispettare?

Prima ancora di rispondere alla domanda sono molto felice di sentire che il nome della vostra rivista è “Lo straniero”, proprio perché nelle interviste, una delle prime risposte che ripeto è che mi sento una studiosa delle frontiere e dei confini – non solo geografici perché nella vita di un uomo ci sono tante frontiere – e credo quindi che il nome della vostra rivista e i concetti che porto avanti quadrino molto. Probabilmente il romanzo che tra i miei è il più interessante per voi è Il caso del Dotto Kukuscky, dal quale ho iniziato a studiare in modo del tutto cosciente il limite e l’oltrepassare del limite, come il confine tra una mente sana e una mente malata, il passaggio dalla vita alla morte, e altri tipi di confini. E’ un territorio conosciuto ma molto interessante da studiare.

Venendo alla domanda, anche a me interessavano più che altro i risvolti umani di questa vicenda. La maggior parte delle persone vive la propria vita senza aver pensato in maniera cosciente al percorso che sta facendo. La storia di Khodorkovsky è una storia umana, è una persona che viveva secondo un ritmo molto intenso e che ad un certo momento è stato bloccato. Una persona che può essere giudicata sotto molti punti di vista ma che stava facendo alcune opere efficaci e che ad un tratto si trova sbattuto fuori dal binario abituale della propria vita e messo in prigione, anche in isolamento, dove ha molto tempo per riflettere. Non lo conosco personalmente ma ho seguito il processo e mi meraviglia il cambiamento che quest’uomo ha avuto, l’effetto di una vera trasformazione che una persona può avere se reclusa e isolata. Il fatto stesso che abbia risposto alle mie domande, cosa che è sicuramente costata un lavoro profondo e intenso, ne è una dimostrazione. Sicuramente Khodorkovsky ha commesso reati di tipo economico, ma per questo è stato condannato ad otto anni di reclusione (che potrebbero diventare venti) con sequestro di tutti gli averi. Il colonnello Budanov * ha avuto la stessa condanna per aver torturato e violentato una donna cecena. D’altronde non ho motivo di dubitare che entrambe le condanne siano motivate, ma non si può certo parlare di giustizia se una legislazione prescrive la stessa pena ad un evasore e ad uno stupratore. L’idea del giusto – e non parlo del legale – è sicuramente una delle più false che ci siano in Russia, soprattutto in una situazione traballante come quella in cui si trova il paese oggi. Non parliamo più di giustizia e legalità, ma di assurdità.

Nello scambio di lettere emerge anche la condizione delle carceri, e so che lei ha fatto anche la prefazione a Le mie prigioni di Eduard Limonov, personaggio discusso internazionalmente che ha raccontato per esperienza personale la condizione delle carceri russe. Questa realtà è davvero così terribile come si racconta, in particolare per gli adolescenti?

La mia intenzione era proprio quella di sottolineare il punto della condizione delle carceri. Oggi in Russia ci sono quasi un milione di persone in carcere, cifra che parla da sola, che vengono anche distribuite in tutto il paese per le difficoltà del sistema penitenziario a contenerli. E’ veramente uno storpiamento della società. Il 97% sono uomini, molti ragazzi giovani, un colpo grave quindi per tutta la società. Le condizioni all’interno delle prigioni, soprattutto sanitarie, sono pesanti ed è risaputo che vengono praticate torture. Non è sicuramente un luogo dove una persona può migliorare, è semplicemente un luogo per punire.

Nelle sue storie i personaggi sono spesso donne, da Medea, a Sinceramente vostro Surik, a Le bugie delle donne, e soprattutto donne atipiche, anche un po’ eroiche nella vita di tutti i giorni, che sembrano acquistare forza dalla complicità tra di loro. Qual è il ruolo della donna nella società globalizzata e post-sovietica?

Sarò molto poco “politically correct”. Le donne in Russia sono migliori degli uomini. Per me le donne russe sono la parte migliore della Nazione ed ho un vago sospetto che questo non riguardi solo la Russia comunque. Ho una collezione di amiche – purtroppo una parte già defunte –più anziane di me e che hanno avuto una grande importanza nella mia vita. In Russia le donne sono molto più numerose degli uomini, soprattutto tra gli anziani. Molti uomini sono caduti in guerra, molti altri sono nelle prigioni come dicevamo, una grande parte è rimasta vittima dell’alcolismo, ed è per questo che le mie amicizie, soprattutto quelle di una generazione più grande, sono costituite soprattutto da donne. Sono molto grata a loro perché queste donne mi hanno lasciato le lezioni di vita più importanti. Per esempio la protagonista Medea del mio libro in realtà non è un ritratto ma come minimo tre ritratti di persone straordinarie che sono state fuse insieme dalla mia fantasia. E quindi si può dire che è un ritratto di gruppo. Per me è molto importante poter parlare di questo perché si ha spesso solo una visione esotica della donna russa, mentre esiste una gran parte di popolazione femminile sconosciuta e silenziosa che ha rappresentato uno dei pilastri della società russa.

Lei ha scritto anche testi teatrali per l’infanzia, e so che ha partecipato ad un progetto intersettoriale dell’Unesco sull’infanzia con cui si sono prodotti libri a sostegno di idee di diversità culturale e religiosa. Qual è la condizione dell’infanzia oggi in Russia? L’educazione ha subito riforme dopo il crollo dell’Unione Sovietica?

Devo dire che sono una che non ha mai amato il sistema scolastico – fin da quando l’ho sperimentato io stesso – ma devo anche riconoscere che visto con gli occhi del poi il sistema, così come era organizzato prima, non era così male. E’ un sistema tedesco elaborato nell’800 ben approfondito con prevalenza per le materie scientifiche dato che l’orientamento ideologico dava maggiore importanza a queste, ma che preparava ad un buon orientamento nel mondo lavorativo. Era un sistema anche piuttosto difficile, ma qualcuno che aveva un interesse per lo studio dopo i dieci anni di scuola dell’obbligo ne usciva preparatissimo. Adesso il sistema scolastico è sicuramente cambiato, e non saprei parlarne molto perché non lo conosco, ma l’iniziativa editoriale di cui parlava che ho intrapreso con l’Unesco era diretta soprattutto alle biblioteche e alle scuole delle piccole province. Nella capitale infatti è possibile trovare di tutto, ma le librerie di provincia sono ben più limitate e dal momento che la situazione culturale in Russia è già piuttosto soffocata ho cercato di creare un’azione che in qualche modo dirigesse i libri giusti là dove mancavano. Sono libri per l’infanzia, anche in inglese, che sostengono principi di tolleranza e contro forme di discriminazione.

Uno dei cambiamenti più evidenti dopo il collasso dell’Unione Sovietica è la grossa disparità tra poveri e nuovi ricchi. Pensa che il paese sia ancora lontano da uno “stato di diritto”, nonostante le maggiori opportunità?

Non c’è bisogno di rispondere. E’ semplicemente così come dice, siamo veramente ancora molto lontani da uno stato di diritto.

Dalla letteratura Samizdat a oggi, studi sociologici hanno dimostrato che il livello di istruzione nel paese cade, e da parte delle nuove generazioni sembra che l’unico vero interesse sia la corsa ad un consumismo bulimico. Come spiega questo fenomeno?

Probabilmente questo è vero, ma devo fare un’obiezione. Siamo molto scontenti dei giovani di oggi, dei programmi scadenti, del poco interesse dei giovani al sociale o ad altro. Devo dire però che quando vedo alcuni figli di miei amici mi sento sollevata a volte perché vedo comunque importanti differenze rispetto a prima. I giovani hanno più apertura, anche di idee, viaggiano, iniziano a parlare altre lingue, usano tecnologie che ci erano sconosciute, e forse il livello culturale è addirittura sceso, ma non dobbiamo dimenticare che se c’è una persona motivata oggi questa ha la possibilità di conoscere, di prepararsi, di capire e di fare. E’ vero che questo non è molto frequente, ma il fatto che questa possibilità esista non è certo da sottovalutare. Per riallacciarmi all’inizio della nostra intervista vorrei parlare di un liceo a titolo di esempio, che ha fondato proprio Khodorkovsky dando una spiegazione di come ci sono arrivata. Sono membro del consiglio di tutela, una organizzazione di controllo su alcuni licei istituiti per orfani di militari caduti nelle varie guerre sovietiche. Questo liceo fondato da Khodorkovsky compie 15 anni proprio quest’anno. Fu uno dei primi grandi progetti che ha creato. La fondazione è registrata in Inghilterra ed è solo per questo che non è stata chiusa. Quando fu fondato il liceo la situazione dolente di cui ci si occupava era il Tagikistan, alla cui frontiera durante un’operazione militare fu sterminato tutto l’organico di un posto di blocco e furono uccisi dunque molti militari. Il liceo fu creato proprio per i figli di questi militari e questo ha generato una tradizione secondo la quale da allora tutti gli orfani di guerre hanno la possibilità di frequentare questi licei e questo è molto importante perché purtroppo in Russia c’è sempre un qualche conflitto in atto. A questi sono poi stati anche aggiunti i figli di famiglie problematiche dove ad esempio ci sono genitori in carcere o alcolizzati. Sicuramente questa è un’eccezione rispetto a tutta la situazione generale in Russia, ma già questa realtà conferma la libertà reale di operare e il fatto che possa servire da esempio va ad assumere enorme importanza in un paese come il nostro. La realtà è proprio questa.

Non direi che il passaggio, la trasformazione, soprattutto sociale, sia avvenuta in meglio, ma prima però era tutto livellato, le persone si vestivano come in divisa, non c’erano scelte, non era possibile dire di no, bisognava semplicemente accettare tutto ciò che veniva imposto.

Ma per alcune cose ancora oggi è dimostrato che non esista una vera libertà. Penso alla libertà di stampa e al caso della Politkovskaya ad esempio.

Sono due libertà diverse. L’anti-libertà che ha ucciso la Politkovskaya e la mancanza di libertà che esisteva prima. Se lo traduciamo in termini europei la Russia non è mai stata libera e tuttora non lo è e non si ricorda decisamente nessun momento storico in cui la Russia poteva essere chiamato un paese libero. Paragonandola sempre all’Europa scopriamo che le nozioni di libertà, giustizia e uguaglianza sono concepite in maniera diverse e appartengono a due società diverse. Quando durante la rivoluzione il contadino uccideva i nobili e distruggeva la biblioteca con libri e quadri, in realtà metteva in atto la propria nozione di giustizia. Indubbiamente la causa era la disparità sociale e la motivazione era quella di raggiungere uno stato più equo. Sono molti i momenti in cui l’interpretazione russa e quella europea sono andate per vie diverse. E quando nel 1917 lo Stato ha iniziato a – per cosiddire – tutelare questa parità sociale motivata da una maggiore giustizia, si sono creati in realtà altri problemi. Per quanto riguarda la libertà la servitù in Russia è stata abolita nel 1861, quindi fino a quel momento era una società basata sulla schiavitù. Un contadino apparteneva fisicamente al padrone, famiglia e figli compresi. Le persone erano una “proprietà”. I nobili moralmente migliori non uccidevano e non picchiavano i loro contadini, o i figli dei contadini, ma erano comunque considerati semplicemente un loro patrimonio, pari a qualunque altro bene. E non si può certo vedere la liberazione degli schiavi come un gran regalo perché sono usciti dalla schiavitù completamente lasciati a se stessi, senza nessun bene e nessun mezzo di sopravvivenza. Forse anche da questo nasce in Russia l’aspettativa di avere qualcuno in alto che gestisca il paese a mano forte. Non ti da la libertà e non ti dà la dignità, ma almeno ti dà il pane. Questa era un po’ l’idea del socialismo. La nazione alla fine però iniziava ad assomigliare ad un lager, dove viene dato il minimo indispensabile alla sopravvivenza e non ci si cura delle necessità o dei pensieri dei singoli individui. Credo che la Russia sia tuttora un paese ancora da ricostruire. Bisogna ricostruire l’idea di giustizia e l’idea di libertà. L’improvviso eccesso di libertà avvenuto con il crollo dell’Unione Sovietica ha portato all’attuale disuguaglianza sociale, cosa che crea un’irritazione e un notevole malcontento nelle masse. Per settanta anni nel potere sovietico si è dichiarato che essere ricchi è proibito e ad un tratto i cittadini comuni e più semplici, con gravi difficoltà economiche, si vedono passare di fronte agli occhi questi nuovi ricchi.

Un altro tema che emerge dai suoi libri è quello della religione. Penso a Daniel Stein, traduttore, dove si affronta la crisi mistica. Nella società post-sovietica, dove convivono –soprattutto a Mosca – le popolazioni del Caucaso insieme a turchi, armeni, ebrei, la religione diventa un ulteriore ostacolo al dialogo?

Sono cresciuta nell’Unione Sovietica e all’università di Mosca avevo con me Armeni, Turchi, Ceceni, Ingusci. In quegli anni nessuno era razzista o nazionalista. L’ambiente era addirittura considerato privilegiato per l’aspetto multietnico. Quello che è successo oggi è che questo internazionalismo è gestito dal vertice. Sappiamo benissimo che l’Unione Sovietica schiacciava molti paesi vicini e sopprimeva la loro indipendenza perché l’impero arrivava sia in Asia che in Estonia, arrivava in molti paesi russi che soggiogava ma che in qualche modo teneva insieme. Ma con il crollo dell’Unione sovietica tutto è scoppiato in una sorta di calderone che ha prodotto guerre e conflitti di vario genere ma per lo più a carattere etnico e culturale. Anche la religione ai tempi sovietici era una. Non era neppure concepibile l’idea di tollerare altre religioni. Quando questo è venuto a mancare si è iniziato a ricercare qualcosa che forse è anche al di sopra della religione, un ideale, che fosse un credo non più imposto ma scelto. E in certi casi forse la chiesa o la religione in genere ha generato un senso di appartenenza che ha preso il posto di quello del vecchio Partito. La chiesa ortodossa però è poco tollerante – il Papa Woytila ha visitato tutto il mondo ma non la Russia, dove la chiesa ortodossa si è rifiutata di accoglierlo – e le discordie ormai ataviche, che risalgono al XIV secolo e che non hanno più alcun senso sono insormontabili. E c’è anche da sottolineare che i praticanti ortodossi di massa sono semi-analfabeti in senso religioso. Nessuno conosce la storia della religione. C’è un prete molto colto che conosco che dice che il vangelo in Russia non è ancora arrivato e che sono tutti convinti che Gesù Cristo è un russo che è stato crocifisso dagli ebrei! L’antisemitismo popolare è ad esempio molto nutrito da questo mito. Dei musulmani sanno ancora meno. Dunque il dialogo è ancora molto lontano. Ci sono alcuni piccoli e deboli tentativi di dialogo, ma ancora si tratta di albori, come ad esempio un istituto creato da alcuni intellettuali che si chiama Istituto di Tolleranza presso la seconda maggiore Biblioteca Nazionale Russa, la Biblioteca Statale di Letterature straniere, dove si trovano libri in tutte le lingue e di cui io sono collaboratrice, e che cerca di aprire in tutte le città del paese dei nuclei che si chiamano centro di tolleranza dove si svolgono anche incontri e dove vengono portati costantemente libri – anche da me selezionati – di letteratura straniera e in lingua straniera. Per la prima volta forse a questi incontri si vedono insieme un prete, un rabbino, un Pope e un Ezbolla.
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* Il colonnello Yuri Budanov, comandante di un battaglione corazzato delle truppe federali, fu riconosciuto colpevole nel 2002 di aver stuprato, torturato e strangolato una ragazza cecena. Fu condannato a dieci anni perché giudicato momentaneamente incapace di intendere e di volere, e dopo poco tempo è ritornato in libertà vigilata (n.d.r.).


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