L. Ulickaja, Daniel´ Štajn, perevodčik, Eksmo, Moskva 2006 (Giulia Gigante)

A Mosca è di recente uscito un libro, Daniel´ Štajn, perevodčik [Daniel Stein, traduttore], che la critica russa non ha esitato a definire “il libro più importante dell'anno”. È un romanzo sofferto alla cui redazione l'autrice Ljudmila Ulickaja – una delle scrittrici più vitali e interessanti del panorama letterario russo contemporaneo – ha lavorato per oltre dieci anni, provando più volte la tentazione di abbandonare l'impresa, una narrazione corale in cui si intrecciano linee narrative, tempi e luoghi diversi.
In quest'opera voluminosa, che supera nell'originale russo le 500 pagine, si ripercorrono, sulla base di una ricchissima documentazione, le vicende di un uomo, al secolo Daniel (Oswald) Rufeisen. Daniel è un “giusto” per il quale ciò che conta non è mai la teoria, l'ideologia, il dogma, ma il precetto evangelico dell'amare il prossimo come se stessi, l'impegno di vivere secondo coscienza, facendo il bene. Ovunque egli sia, diffonde serenità e possiede una forma speciale di sensibilità che gli fa percepire negli altri le sofferenze nascoste e “captare” i pensieri inespressi anche di persone a lui sconosciute. Dotato di un carisma senza pari, conosce Israele palmo a palmo, l'ha percorso tutto a piedi ed è in grado di narrarne in maniera affascinante i segreti, le leggende, i fatti storici. È un eroe, una sorta di Don Chisciotte dall'energia inesauribile, che a settant'anni conserva ancora la memoria e i lineamenti di un ragazzo.
Rinunciando alla tecnica narrativa ampiamente consolidata nelle opere precedenti, la Ulickaja costruisce un’opera polifonica, optando per una complicata architettura stilistica in cui l’autore si pone come un “compilatore”. Il romanzo si presenta come una ricchissima silloge di documenti di vario tipo – lettere, frammenti di diari, registrazioni di conversazioni e interviste, rapporti dei servizi segreti, articoli di giornale – che, all'inizio appaiono slegati, quasi sconnessi, ma che, con il procedere della narrazione, assumono un senso e raccontano una storia che non è solo quella straordinaria di Daniel, l'uomo dalle molte vite, ma è quella di una miriade di personaggi di fedi diverse – ebrei, cattolici, ortodossi e musulmani – e di paesi diversi – russi, polacchi, lituani, bielorussi, ebrei, arabi, tedeschi e americani.
Il nucleo di partenza è certamente la parte più intensa del libro: la storia degli ebrei polacchi deportati a Emsk (che rappresenta nella realtà la città di Minsk), prima rinchiusi nel ghetto, poi destinati a morte sicura, ma salvati grazie all'intervento di Daniel, è il fulcro da cui si dipartono tutte le linee narrative e i personaggi del libro.
Il titolo, solo apparentemente semplice, quasi banale, subentrato a quello originario Byt´ nikem [Essere nessuno], propone già una duplice chiave di lettura. Daniel non è solo un traduttore in senso linguistico, ma è anche colui che traduce – cioè fa attraversare – persone; è un “traghettatore di anime”. Nel corso della sua esistenza avventurosa, Daniel ha vissuto da ebreo in Polonia, poi in Lituania, Bielorussia e Russia, l'esperienza drammatica della guerra e della caccia agli ebrei, è stato più volte condannato a morte e salvato (per miracolo?) all'ultimo minuto, ha lavorato come interprete per la Gestapo spacciandosi per polacco, aiutando nel frattempo centinaia di ebrei a salvarsi, ha combattuto con i partigiani e a un certo punto è stato costretto a lavorare persino per l'Nkvd (il futuro Kgb), sempre come traduttore; alla fine della guerra, ha deciso di convertirsi al cattolicesimo e di fare il monaco cattolico in Israele. Una scelta paradossale, quella dell'ebreo convertito, ma desideroso di vivere in Israele, che officia la liturgia in ebraico e ritiene che il cattolicesimo debba tenere nel dovuto conto la sua componente orientale e non europea (non deve essere la “religione di Roma”), una decisione che lo colloca, per l'ennesima volta, in una situazione anomala e difficile che non incide, però, sulla sua instancabile energia e disponibilità illimitata ad aiutare tutti e a intervenire per risolvere situazioni difficili e apparentemente insolubili.
La conoscenza delle lingue ha un ruolo di primo piano nella vita di Daniel dal momento che gli salva la vita molte volte ed è strettamente connessa al tema dei confini geografici che vengono continuamente attraversati. Sarebbe bello se un'eventuale edizione italiana del libro comprendesse una cartina geografica con una rete di tracciati per poter seguire visivamente gli spostamenti dei personaggi.
La Ulickaja ha il merito in questo romanzo di imbastire una narrazione da cui è avulsa qualsiasi banalità, dove si parla solo delle cose che contano. I valori per cui vale la pena di vivere, le scelte che possono cambiare la propria esistenza e quella altrui, i grandi dilemmi esistenziali. Oltre alle problematiche storiche legate agli avvenimenti narrati – il nazismo e la persecuzione degli ebrei, il totalitarismo comunista e la dissidenza, i conflitti in Israele –, nell'opera ha un ruolo rilevante la tematica religiosa dal momento che vengono affrontate questioni teologiche anche complesse e controverse. In parte, ciò è legato alla storia che viene narrata e al tipo di personaggi che vi partecipa, ma, in parte, è anche la risposta a un'esigenza profondamente sentita in Russia. Dopo tre quarti di secolo di ateismo di stato e di religiosità relegata al sottosuolo, non basta riaprire le chiese e ripristinare liturgie e rituali, ma occorre valutare, ripensare, fare proprie o, al contrario, contestare posizioni e riflessioni su Dio, la Trinità, i precetti delle diverse chiese, i rapporti tra le diverse confessioni religiose, la tolleranza. Per capire l'urgenza di tale riflessione, ci si deve proiettare nella dimensione della Russia e nella peculiarità della sua storia e delle tracce che ha lasciato nella mentalità della gente e nel suo modo di concepire il significato dell'esistenza.
Tra gli interrogativi che si ricollegano alla riflessione esistenziale emerge prepotente la ricerca delle proprie radici. Ciò avviene sia nell'ambito della narrazione attraverso il personaggio di Eva, desiderosa di conoscere il proprio passato remoto, benché si tratti di un processo molto doloroso, che su di un piano più personale – quello della scrittrice. La Ulickaja, infatti, sembra dar voce per la prima volta, a pieno e non solo per allusioni e riferimenti, alla cultura e alle tradizioni ebraiche che costituiscono parte integrante del suo background, sembra quasi voler rispondere alla critica che l'accusava di aver dimenticato le sue radici nelle ultime opere.
L'opera affronta questioni difficili. Può una vocazione alla lotta – anche per una giusta causa come quella partigiana – giustificare l'abbandono di due bambini all'orfanatrofio da parte di una madre? E ancora: è giusto considerare madre una donna che ha vissuto per i propri ideali trascurando i figli e non riuscendo mai a stabilire un vero rapporto con l'unica figlia sopravvissuta e non un'altra donna con cui si è instaurato un rapporto di confidenza, affetto e scambio?
Attraverso il personaggio di Hilda, che ha scelto di dedicare la propria vita agli altri per riscattare i crimini orrendi di cui si è macchiato il suo popolo, viene sollevato un altro dubbio esistenziale: è giusto il senso di colpa dei tedeschi, figli di genitori la cui generazione è responsabile dell'eccidio degli ebrei?
In questa prospettiva si inserisce ancora un dilemma cruciale: essere attivi o passivi nel divenire storico, limitarsi alla resistenza passiva o investirsi a pieno nelle proprie scelte, prendendo posizioni difficili, scomode e mantenendole anche a prezzo della vita?
Pur senza ergersi a giudice nei confronti di nessuno, la Ulickaja spezza una lancia a favore della tolleranza, del saper accettare anche decisioni che sono inconcepibili rispetto al proprio modo di pensare, che si tratti di un figlio che si dichiara gay, di una persona cara che decide di vivere in Israele e vi resta anche dopo che un cecchino gli ha ammazzato uno dei figli o ancora – con riferimento al nucleo centrale del libro – di un ebreo (Daniel) che decide di diventare cattolico e, come se non bastasse, di professare la sua nuova religione in Israele.
Infine, il fatto che, nella sua complessità, il libro proponga talvolta qualche personaggio di troppo o qualche disquisizione teologica che ai nostri occhi occidentali può apparire superflua è irrilevante ai fini del giudizio su un libro che rappresenta un’opera fondamentale, destinata a lasciare il segno.


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