Tra gli effetti secondari del Nobel per la Letteratura c'è a volte quello di assicurare visibilità allargata, al di là del vincitore, a produzioni nazionali messe in parentesi alle nostre latitudini o per disattenzione dei lettori o per mancanza di traduzioni italiane. Così la vittoria di Svetlana Aleksievic del 2015 potrebbe svolgere un ruolo di trascinamento nei confronti della letteratura russa contemporanea, diffusa in Italia soprattutto grazie alla benemerita Voland dal nome bulgakoviano, riaccendendo quell'interesse nato nei primi anni Novanta come effetto trascinamento delle vicende politiche post gorbacioviane e poi alquanto affievolito. Lo meriterebbe in pieno un'autrice come Ludmila Ulitskaya, tradotta in 40 Paesi e già notissima in Italia, soprattutto per Funeral party. Ora in Una storia russa, ponderoso punto d'arrivo della sua narrativa, scolpisce una potentissima epopea di vita sovietica incardinata in un tempo compreso tra la morte di Stalin e l'invasione di Praga, facendo intravedere, ancora oltre, gli anni successivi alla morte di Breznev. La scrittura è a dir poco sontuosa e s'insinua come le anse di un fiume nelle pieghe di una trama densissima e ricca di personaggi avvincenti, dove si racconta del dominio assoluto esercitato sulle vite della gente dal Kgb. Lettura oltremodo illuminante in questi anni in cui la Russia putiniana assicura una inquietante continuità con quel recente passato, nella persona dell'ex capo del Kgb al centro di omicidi di figure per lui scomode, dall'ardimentosa Anna Politkovskaja all'agente segreto Livtinenko.
Nelle pagine di Ulitskaya incontriamo giovani amanti palpitanti trasformate per paura in delatrici, pedinamenti e condanne al confino comminate ai possessori di Arcipelago gulag in samizdat. Ci sono intere famiglie smembrate per la soffiata di un vicino desideroso di accaparrarsi un appartamento, bambini portati nei Lager per figli di Traditori della Patria, o adolescenti spietati pronti a rinnegare i virtuosi genitori e a scrivere sul giornale di partito che il loro vero padre era Lenin, la loro vera madre era il partito.
Ulitskaja racconta il senso di sradicamento e tradimento degli ideali rivoluzionari vissuto da milioni di sovietici seguendo il disincanto di tre giovani amici fin dai banchi di scuola e da allora sempre un po' appartati, un po' speciali, ciascuno con una spiccata vocazione artistica: Micka il sognatore, cresciuto senza genitori e dotato di un gran talento poetico e letterario, Sanja il pianista, sostenuto da una leggendaria nonna discendente da parenti decabristi e come loro mente libera, Il'ja, il più difficile, amaramente destinato più degli altri a sperimentare sulla propria stessa persona la pervasività e l'impossibilità di sottrarsi al totale controllo della polizia segreta. Del resto, ce n'è per tutti e tre in fatto di spiate, tradimenti, perquisizioni e interrogatori alla Lubjanka.
Circostanza, questa, come si diceva posta al centro del libro, ma che non inibisce nei tre amici la consapevolezza di aggirarsi dove "Mandel'stam si fermava dal fratello", o a due passi dalla farmacia dove la moglie di Bulgakov comprava le medicine al marito, o anche a un tiro di schioppo da dove Pasternak incontrava la vera Lara. Né impedisce loro di ascoltare Rock around the clock o Il clavicembalo ben temperato. La bellezza – e la ricchezza - del libro, disseminato di vicende e personaggi com'è proprio delle grandi narrazioni russe alla Tolstoj, sta anche nel modo in cui restituisce l'immagine di grande contraddittorietà di un mondo che si voleva rivoluzionato ma ha finito per inghiottire e sopraffare milioni di destini sotto la coltre del dominio più cupo.