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Daniel Stein, traduttore di Ljudmila Ulickaja

"Quando ero entrato in servizio presso la polizia, avevo prestato giuramento di fedeltà al Führer. Più tardi, come partigiano russo, prestai giuramento di fedeltà a Stalin. Ma non si trattava di veri giuramenti, ero costretto a farli. A quel prezzo non salvavo più soltanto la mia vita, ma anche quella di altri."  Leggi l'intervista a Ljudmila Ulickaja

SALONE DEL LIBRO DI TORINO 2011 - Ljudmila Ulickaja sarà presente al Salone del Libro di Torino 2011

‘Come ogni grosso libro, anche questo mi sfinisce’, confessa Ljudmila Ulickaja in una lettera a Elena Kostioukovitch a cui manda in lettura il libro che sta scrivendo e che noi leggiamo, Daniel Stein, traduttore. E se ne può ben capire la ragione, come si può comprendere il tempo che è stato necessario alla scrittrice russa per esaminare il materiale, farne una scelta e rielaborarlo nel romanzo. Perché la storia di Daniel Stein è la storia vera di Oswald Rufeisen, l’ebreo polacco che riuscì a far fuggire 300 persone dal ghetto di Mir, in Bielorussia, e che poi si convertì al cattolicesimo, diventando frate, e che, infine, in Israele fondò una Chiesa giudaico-cristiana. Una vita come quella di Daniel Stein contiene molte vite, e in ognuna di queste entrano ed escono una quantità straordinaria di persone, ciascuna con il suo vissuto - lo sfinimento di Ludmila Ulitskaya è quello che si prova quando ci sembra che il cuore e la mente non possano contenere niente altro, nessuna nuova emozione, che i nostri occhi non abbiano più lacrime per l’orrore in cui ci siamo imbattuti.    

La narrativa non è lineare, e questo è uno dei motivi della straordinaria ricchezza del romanzo: si inizia con Ewa Manoukian, che parla da Boston, nel dicembre del 1985, e si termina nel dicembre del 1995, con il funerale di frate Daniel in Israele. Nelle 550 pagine di mezzo, le date si spostano avanti e indietro, risalendo ad un tempo anteriore al 1985 con una lettera datata 1946, in cui un amico scrive al fratello di Daniel comunicandogli il suo stupore per aver ritrovato Daniel vivo e in convento!! E il racconto non è uno solo, e non è neppure in terza persona, bensì è composto da lettere, da stralci di rassegna stampa, da documentazioni segrete dell’archivio del KGB, comunicazioni sempre segrete del clero, telegrammi, voci registrate su nastro, frammenti di conversazioni, appunti del dottor Hantman che aveva vissuto nel ghetto, pezzi di lezioni di un professore di teologia, mentre è Daniel stesso che parla della sua vita in un discorso agli studenti di Friburgo.    

È lui, Daniel, il collante di tutte le storie. Daniel ‘il traduttore’, non solo perché, con il suo perfetto bilinguismo tedesco-polacco, aveva lavorato come interprete per la Gestapo (ed era così che aveva saputo in anteprima dell’operazione Jod, riuscendo a far fuggire dal ghetto 300 ebrei), ma anche perché, secondo l’etimologia del verbo ‘tradurre’, Daniel ‘fa passare’, Daniel è un traghettatore di anime: dalla prigionia alla libertà, dall’isolamento di una religione ad un’altra più ampia. “Daniel ha fatto del suo corpo un ponte sopra l’abisso incolmabile che separa giudaismo e cristianesimo”, sintetizza qualcuno, parlando di lui. Perché Daniel, male accetto agli ebrei che lo considerano un traditore, inviso ai cattolici che lo guardano con sospetto, straniero nella sua terra perché Israele non è ancora lo Stato laico che ha elaborato una definizione di chi possa definirsi ebreo, non teme nessuno - aveva sfidato i nazisti e ora non teme il Vaticano, omettendo la Professione di Fede durante la celebrazione della Messa e non nascondendo nei suoi discorsi che cosa pensi della dottrina della Chiesa che, secondo lui, non è affatto quella originale. La religione di Daniel è giudaico cristiana, è un ampliamento dell’ebraismo, è l’ebraismo dopo il messaggio di Cristo. E basta. I dogmi della Trinità e della Vergine Maria sono venuti dopo il IV secolo, fanno parte della religione greco cristiana, non c’è traccia di ciò nei Vangeli. La religione di Daniel è amore, è tolleranza, è comportarsi rettamente: “non conta assolutamente in cosa credi, ma conta solo come ti comporti”. E non esiste una sola maniera di seguire Dio, ognuno è libero di trovare Dio cercandolo lungo la via che gli si apre davanti.     

Tutti gli altri personaggi del libro ruotano intorno a lui, tutti, in qualche maniera, nel passato o nel presente, sono venuti in contatto con lui, nello ‘Yiddishland’ ormai scomparso per sempre o in Israele. Ewa, la bambina nata nella foresta e infilata in una manica di pelliccia perché stesse al caldo; Rita, la madre che aveva lasciato Ewa e il fratello in un orfanotrofio per continuare a combattere i nazisti; Hilda, la giovane assistente tedesca di Daniel che sconta le colpe del nonno nazista con il suo volontariato; Grazyna, che si uccide dopo la morte del marito ebreo che lei aveva tenuto nascosto a rischio della vita, durante la guerra; l’ebreo russo ex dissidente che diventa un terrorista; la donna polacca il cui marito era un criminale di guerra; l’arabo cristiano israeliano di cui si innamora Hilda, il dottor Isaac che aveva garantito per Daniel davanti ai partigiani russi, e tanti altri ancora.     

Non esito a dire che soltanto un grande scrittore o una grande scrittrice poteva riuscire nell’impresa di coordinare un materiale così vasto, di dare vita e parola a una tale varietà di personaggi, di rendere interessanti anche le discussioni teologiche, di far risplendere il carisma di un uomo come Daniel Stein, uno dei ‘giusti’ sulla terra. Con questo romanzo Ljudmila Ulickaja, autrice di romanzi che hanno vinto numerosi premi in Russia e all’estero, conferma di essere l’erede della tradizione letteraria russa: un libro assolutamente da leggere. Da rileggere. Da far leggere agli amici. Da non dimenticare.