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La casa del tempo sospeso
Mariam Petrosjan è armena, ma scrive in russo. Il suo primo libro, che a quanto pare sarà anche l'ultimo, è stato un grande caso editoriale in Russia alla sua uscita nel 2010. "La casa del tempo sospeso" è stato pubblicato in Italia da Salani, nella splendida traduzione di Emanuela Guercetti. Ottocento pagine impregnate di una malia possente che risucchia con la stessa forza di gravità di un buco nero. Una recensione
Mariam Petrosjan, di Yerevan, proveniente da una famiglia di intellettuali armeni, è l’autrice di unius libris: La casa del tempo sospeso, presentato quest'anno a Torino al Salone del Libro lo scorso maggio. Non scriverà mai più, per cui è inutile rimanere in attesa di una prossima uscita. Un motivo in più per gustarselo fino in fondo. L'autrice per dieci anni – tanto si è protratta la composizione - si è avvalsa della scrittura per la scrittura come di un potere taumaturgico. E il risultato è un libro prepotentemente seducente che vive di vita propria, quasi come La Casa di cui parla. Un libro che ha persino deciso di farsi pubblicare all'insaputa della sua creatrice. Il manoscritto, infatti, è finito per caso nelle mani di un editore moscovita, che l'aveva ricevuto attraverso una catena di “passaparola” che faceva capo, dall'altro lato, ad un'amica di Mariam, che l'aveva ricevuto in visione alla fine degli anni Novanta. Nel 2007 l'autrice ha ricevuto la chiamata dalla casa editrice che ne proponeva la pubblicazione. Senza dubbio, un libro con un destino.
Una storia particolare per un libro originale che nel 2010 in Russia ha spopolato facendo incetta di riconoscimenti letterari: 2010 Russian Student Booker Award; 2010 Russian Literary Award per il miglior romanzo; 2010 Nomination per NazBest Literary Award; 2010 Selezione Russian Booker; 2009 vincitore del bronzo per il Big Book Russian National Literary Prize, assegnato in base alla votazione dei lettori.
Dettaglio curioso: Mariam Petrosjan parla in armeno e scrive in russo. Lo trova naturale, avendo frequentato la scuola russa e leggendo il russo. Quanto alla geografia, non è ambientato né in Russia né in Armenia, ma avulso da qualsiasi coordinata spaziale.
Non lasciatevi spaventare dalla mole. Le circa ottocento pagine del volume sono impregnate di una malia possente che risucchia con la stessa forza di gravità di un buco nero. Ci si stacca a fatica. Chi scrive ha approfittato di lunghe ore di treno per gustare la splendida traduzione di Emanuela Guercetti, rammaricandosi di dover interrompere la lettura al termine del viaggio.
La Casa sorge alla periferia della città. In un luogo chiamato “I pettini”. Lunghi e alti palazzoni vi si allineano in file dentellate, intercalati da cortili quadrati di cemento: luoghi deputati ai giochi dei giovani “pettinicoli”. I denti del pettine sono bianchi, pieni di occhi e simili l'uno all'altro. Dove non sono ancora cresciuti, ci sono terreni abbandonati cinti da steccati. Le macerie delle case demolite, i covi dei ratti e dei cani randagi sono molto più interessanti per i giovani “pettinicoli” dei loro cortili, intervalli fra i denti.
Nel territorio neutrale tra due mondi – i denti e i terreni abbandonati - sorge la Casa. La chiamano Grigia. È vecchia e prossima per età ai terreni abbandonati in cui sono sepolte le sue coetanee. È solitaria – le altre case la scansano – e non somiglia al dente di un pettine, perché non tende verso l'alto. Ha tre piani, una facciata che da sulla strada, e ha anch'essa un cortile: un lungo rettangolo cinto da una rete. Una volta era bianca. Ora è grigia sul davanti e gialla sul lato interno, quello del cortile. È irta di antenne e cavi, i muri si sgretolano e le crepe piangono. Vi si addossano garage e annessi, cassonetti delle immondizie e cucce per cani. Tutto questo dalla parte del cortile. La facciata è nuda e tetra, come si conviene che sia.
La Casa Grigia non è amata. Nessuno lo dirà ad alta voce ma gli abitanti dei “Pettini” preferirebbero non averla nelle vicinanze. Preferirebbero che non esistesse affatto.
Cosi inizia il romanzo.
La Casa è un collegio per disabili. Adolescenti completamente tagliati fuori da qualsiasi contatto con l’esterno fino al congedo, che arriva inesorabile all’età di diciannove anni. Ma la Casa vive di vita propria, ha le sue regole, conosce i suoi abitanti, e gli studenti conoscono lei e in lei si rifugiano. Hanno con le mura che li proteggono un rapporto che sa di rituale mistico. La Casa ricorda Hogwards, la scuola di Harry Potter. Hogwards è organizzata in quattro case, la Casa in sei gruppi. Lì i ragazzi sono dotati di poteri magici. Qui, i loro poteri vengono dalla loro fervida fantasia e dalla loro volontà ferrea. La magia sta tutta nelle parole che usano e negli occhi con cui vedono il mondo. I ragazzi non hanno nome. Si battezzano fra di loro con nomignoli che riprendono le caratteristiche fisiche o morali. Fumatore, Cieco, Pantegana, Vetreria, Strega, Lord, Sciacallo, Sfinge, Avvoltoio sfilano nella nostra mente. E noi ci ritroviamo, immersi nella lettura, a domandarci che soprannome ci verrebbe affibbiato (Riccia? Quattrocchi? Tappo? Al mio, devo ammettere, ci sto ancora pensando). L’intensità delle loro esperienze emotive, al limite delle allucinazioni, si trasmette al lettore attraverso un potente linguaggio immaginifico che fa dimenticare le menomazioni: risulta arduo tenere presente che si parla di ciechi o invalidi senza braccia o gambe.
La Casa diviene un luogo “altro” rispetto all’Esteriorità, il mondo da cui vengono e in cui hanno paura di tornare. Nonostante vivano confinati nel loro mondo, gli abitanti della casa sperimentano di tutto. Conformismo, anticonformismo, amicizia, odio, sadismo, malattia, morte, sesso, amore, fino all’estremo: la lotta di potere che conduce all’omicidio. Il tutto fra educatori incompetenti o nel migliore dei casi impotenti. La Casa si rivela solo agli studenti, rimane inaccessibile agli adulti.
E a fine lettura un senso di amarezza. Non per l’epilogo scontato, ma perché purtroppo si è arrivati all’ultima pagina.