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La Fortuna degli Zingari-Il’Ja Mitrofanov (2009 ISBN)
a cura di Alessandro Pascale

«Gli esseri umani sono più cattivi dei cani. Il cane morde, ma l’uomo ti sbrana vivo»
A parlare è la protagonista del romanzo, Sabina il suo nome. Una zingara. Una zingara bella ma sfortunata. E se la vita di uno zingaro è già difficile di per sé, dovendo affrontare giudizi e pregiudizi assai pesanti e infimi, quella di una donna zingara, bella, sfortunata e che decide di uscire dal “branco” lo diventa ancora di più. Diventa una caduta libera in precipizio, priva di qualsiasi paracadute di salvataggio in una società (il socialismo reale dell’URSS) che nonostante si professasse il manifesto della solidarietà e del bene comune risultasse di fatto un nido ideale di per la corruzione, la violenza, il degrado culturale e sociale. La fortuna degli zingari è quindi un libro sugli ultimi, quelli che davvero più in basso di così non possono stare, discriminati e frustati perfino da chi le frustate le prende da tutti.
L’URSS che Mitrofanov rappresenta è quella della periferia più estrema, quella della Bessarabia, regione danubiana al confine con la Romania, la cui capitale “reale” è un paesino di nome Achillea, assai diversa dalla lontana Mosca. La perifericità non è solo geografica ma anche narrativa. La scelta che si assume è infatti quella di vedere il mondo con gli occhi di Sabina, dapprima intellingente bambina cui viene portato via il padre, poi donna matura che trova la ragione della propria vita in Bògdan, pittore dal passato oscuro e afflitto da un sempre più esistenziale mal de vivre che lo condurrà alla pazzia.
La vita come un cerchio quindi, che si apre e chiude con disgrazie. In mezzo poca felicità e tanta cattiveria, cui la protagonista contribuisce ad alimentare in una lotta per la sopravvivenza. Così sono da vedere i furti cui è costretta a ricorrere. Così si spiega anche la frase iniziale, manifesto dell’anti-umanità, in cui i soggetti positivi sono pochissimi, compaiono di sfuggita, assai di rado, e non riescono a compiere azioni decisive per la salvezza degli individui.
Mitrofanov rappresenta la società sovietica come l’esatto contrario di come la propaganda di regime vorrebbe che fosse: nonostante la teorica abolizione delle classe e di concetti come individualismo e profitto le azioni della gran parte dei personaggi sembrano essere motivati da una cosa sola: i soldi, qui ridenominati dagli zingari con splendido effetto retorico dapprima “gli stalin” poi “i chruscev”.
La carica critica è spietata e raggiunge livelli di desolazione e violenza assoluti, assai distanti dalla rappresentazione sardonica e grottesca di un altro grande autore sovietico dissidente come Bulgakov. La spigliatezza e l’estremo realismo proletario della prosa rendono lo stile di Mitrofanov assai più prossimo di quella che doveva essere la società sovietica: socialista. L’intento politico di condanna del regime della sua corruzione imperante fa seguito alla critica delle iconografie, delle propagande totalitarie irreali, della scarsità di generi alimentari, del sistema sanitario e della mancanza di libertà di pensiero. Critica che avviene dal basso, facendo vedere nell’immediato le modalità e lo stile di vita della società sovietica, specie per gli strati più umili, perennemente in lotta tra loro. In tutto questo scenario l’amore che si fa largo in Sabina diventa un evento davvero unico, un motivo per cui dedicare tutta la propria vita. C’è in fondo un senso semplice ma profondo nell’opera di Mitrofanov. Chiudiamo ricordando che il libro è la seconda parte di una trilogia iniziata con Il testimone (ISBN 2007) e che si chiuderà con La fontana di Odessa (ISBN 2010).