INTERVISTA
Sokolov, il fabbro pellegrino della prosa russa
All'Auditorium di Roma, oggi SaÜa Sokolov leggerà brani di un'opera che il pubblico della sua lingua tiene cara come un mito. Il più affascinante tra i suoi romanzi, Un po' cane, un po' lupo, risente mimeticamente della indeterminatezza propria sia alla quotidianità che alla lingua russa, rendendo interscambiabili personaggi di mondi animali e vegetali diversi
MARIO CARAMITTI


Strano, unico il destino di SaÜa Sokolov, il più fantasmagorico ed enigmatico scrittore russo contemporaneo, maestro della parola e unanimemente riconosciuto in Russia come «miglior fabbro», sin da quando la sua prosa era diffusa in ciclostile. La consacrazione ufficiale arrivò dopo la fine dell'Unione Sovietica, poi, dai primi anni Novanta, il silenzio più assordante. Il pubblico romano avrà quindi un'occasione preziosa per incontrarlo oggi pomeriggio al bookshop dell'Auditorium, nell'ambito del Festival russo. Cittadino del mondo, eppure intimamente e insolubilmente legato al «paese della mia lingua», in questa stessa lingua Sokolov si trasferisce, anche fisicamente, come il protagonista della sua Palissandreide che vive immerso in una vasca di fanghi. Proprio con il fango e tanti altri elementi di dissacrazione e autosvilimento ha costruito al russo e con il russo tre sontuosi monumenti, assolutamente originali e diversissimi l'uno dall'altro. Il primo romanzo, Scuola di scemi (1976), è l'ininterrotto, poeto dialogo tra le due metà dell'io scisso di un adolescente, alunno di una scuola differenziale ed emanazione, come tutto, dell'io dell'autore. Un ritratto spirituale dell'Unione Sovietica attraverso una meravigliosa galleria di temi e stilemi modernisti. Punta estrema della sua ricerca formale, il suo secondo romanzo è forse il più prodigioso testo in lingua russa nella seconda metà del Novecento, accanto a Tra Mosca e PetuÜki di Venedikt Erofeev. Titolato Un po' cane, un po' lupo (1980) è una storia al confine tra prosa e poesia, duecento pagine di intensissimo intarsio verbale attorno a tre, o forse soltanto due personaggi, che cambiano continuamente nome e volto, cedono e riacquistano arti, trapassano in stati metamorfici vegetali e animali e neanche nell'oltretomba perdono il vizio di scrivere lettere delatorie. Il terzo romanzo, la Palissandreide (1985), è invece frutto di un'immersione nell'estetica postmoderna: totalmente citazionale e parodistico, decostruisce tutti i generi letterari più o meno di massa, proiettando in un futuro prossimo le avventure di un geniale grafomane e mitomane, vecchio e bambino, dagli infaticabili appetiti gerontofili, che salirà dopo molte prove e incarnazioni al trono del Cronarchiato di Russia, erede di Stalin e di Andropov.

Sokolov, consapevole di essere un fenomenale artigiano della lingua, si dedica con umiltà al lento, certosino mestiere di scrittore, trovando nella perfezione formale l'unica gratificazione a lui indispensabile. Così parla uno dei suoi personaggi, riassumendo quella che potrebbe essere una dichiarazione di poetica: «In quei giorni ti sei disincagliato dal bozzolo e hai preso a volare. Non però come le farfalle incantate di Nabokov, ma come una grigia e cupa falena, inebriata da un'ansia incessante. Certo, meglio volare così, cupo e grigio, che non volare affatto. E tu, conseguentemente comportandoti, sei riuscito a sentirti finalmente un piccolo, ma libero tarlo della lingua materna, e ti sei messo a dar di gomito per librarti sempre più in alto».

Quel che il pubblico italiano conosce di lei è soltanto il fatto che in Russia lei è un mito. E da molto prima di arrivare agli ottant'anni. Come si convive con una simile fama?

All'estero ci si convive tranquillamente. Ma quando capito a Mosca, tocca meritarselo. Tutti ti cercano, non solo per interviste, o per inviti alle feste, ma anche per andare a pattinare, al bagno turco, a caccia, all'inaugurazione di una mostra. E chiedono sempre di raccontare qualcosa, vogliono consigli per i loro problemi personali. Tutta questa attenzione, s'intende, gratifica; ma dopo alcuni giorni e alcune notti dallo specchio ti guarda di sbieco un tipo che ormai fatichi a riconoscere, floscio, acciaccato. Il colore della faccia è lo stesso che hanno il lunedì mattina i cassieri di banca ad Atene.

Quale considerazione si ha per la vita quando si è dotati del talento della scrittura? Ed è, in ultima analisi, una cosa di cui lei ha bisogno?

Ricorderà, naturalmente, come ha risposto a questa domanda Aleksandr PuÜkin: «o vita, dono casuale, dono inutile, perché mi sei stata data?» È una questione che lo ha molto preso, e alla fine ha trovato un'eccellente soluzione filosofica: al mondo la felicità non esiste, ma ci sono libertà e serenità. Questa massima mi è molto vicina. Fin dall'infanzia ho amato alla follia la libertà, e dalla società pretendevo in sostanza un'unica cosa: che mi lasciasse in pace. Per effetto di questo mio carattere ho sempre agito come volevo o ritenevo opportuno. A qualsiasi costo. Penso che proprio per questo sono divenuto quello che sono. Dal punto di vista di chi è libero come uomo e come artista la vita è più o meno tollerabile. Sebbene all'artista capiti spesso di metterne in dubbio la necessità.

Se dovesse citare tre episodi della sua vita tra quelli capaci di determinare il nostro destino, quali sceglierebbe?

L'emigrazione dalla Russia, nel 1975. Tutti quelli che andavano via allora dall'impero si rendevano conto che la via del ritorno era preclusa per sempre. L'addio agli amici, il superamento della frontiera, le prime ore nella nuova realtà. Il dolore e il giubilo. Episodio numero due: 1988. Vivo nei Balcani. Vengo a sapere che su una rivista moscovita (ancora sovietica) è stato pubblicato un estratto da un mio romanzo. Fatico a crederci, tutti gli scrittori emigrati sono ancora proibiti. Mi dicono che una donna greca che si trovava in Russia, ospite di miei amici, era d'accordo a riportare con sé una copia del giornale e a consegnarmela a Salonicco. Quando ho in mano la rivista non riesco a staccare gli occhi dalle mie stesse parole. Quella rivista tirava alcuni milioni di copie. Una tempesta di emozioni positive. Quella sera stessa la donna che mi aveva recapitato il giornale muore improvvisamente. Episodio numero tre. Il ritorno a Mosca, quattordici anni dopo esser partito per sempre. Un ritorno lento, in treno. Per i dettagli, cercate nelle mie opere.

È mai successo che la sua scrittura sia entrata fisicamente nella sua vita fino al punto di coincidere del tutto con essa?

Nell'inverno del 1978 vivevo nel Michigan e lavoravo al mio secondo romanzo. Uno dei personaggi del libro, di nome Albatrosov, ha un passato da fuochista su una nave. Delineavo il personaggio modellandolo sul mio fratellastro, un marinaio, che all'epoca era imbarcato su un cargo. Senza pensare alle possibili conseguenze, ho fatto prendere al destino di Albatrosov una brutta piega: un'esplosione in sala macchine gli stacca un braccio. Quando il libro è uscito, sono venuto a sapere che negli stessi giorni in cui scrivevo quell'episodio mio fratello ha perso un braccio a causa di un incidente. È questo, direi, l'esempio più crudele e sconcertante nella mia pratica di scrittore. Ma nel complesso quello che scrivo si avvera spesso. Più spesso, purtroppo, di quanto vorrei, visto che scrivo generalmente di cose poco piacevoli.

Quali sono le persone, o almeno le due principali presenze che, nel bene e nel male, hanno influenzato la sua vita?

Entrambe sono già morte. Il mio genio buono è stato Carl Proffer, un celebre professore americano, fanatico della letteratura russa, che ha creato all'inizio degli anni Settanta nel Michigan la casa editrice Ardis. Vi si pubblicavano i libri degli scrittori russi proibiti in Unione Sovietica, compresi i miei. Proffer credeva in me e nelle mie doti, e ha fatto tutto il possibile perché negli Stati Uniti, dove mi ero trasferito su suo invito, tutto andasse nel migliore dei modi. Nello stesso tempo quello che si presentava come un suo amico, il poeta Iosif Brodskij, faceva il possibile perché la mia carriera letteraria in Occidente naufragasse. Questo genio cattivo, sul quale peraltro non ho nulla da obiettare come poeta, aveva una grande influenza sull'élite intellettuale newyorchese e sul mondo universitario americano. Ha provato, fortunatamente invano, a impedire la pubblicazione del mio primo romanzo, perché è prevalsa l'opinione favorevole di Nabokov. Ma in compenso Brodskij è riuscito a fare scomparire immediatamente l'entusiasmo dei produttori di Hollywood per quello stesso libro. E poi, quando era ormai in punto di morte, ha raccolto le forze per far sì che non mi venisse assegnato il premio Mac Arthur. La cosa era già decisa, ma una telefonata di Brodskij al presidente della giuria ha mandato tutto a monte, e dire che con i soldi del premio avrei vissuto in pace per anni.

Una volta ho letto su di lei un articolo di Vitalij Puchanov che si intitolava «Scuola di fuga». Come spiega il suo rapporto così instabile con i luoghi di residenza?

Ho sentito dire che qualcuno in Russia mi chiama «il Sokolov pellegrino», anche se siamo nell'ordine del gioco di parole, perché esiste una specie di falchi («sokol» in russo significa falco) così denominata. Per quel che riguarda i pennuti, non saprei, ma per quanto riguarda me devo dire che non sono affatto disturbato da questo modo di vita, semmai il contrario. I frequenti traslochi consentono di liberarsi delle cianfrusaglie inutili e di rinnovare la cerchia delle conoscenze. Più di una volta mi è capitato di lasciare un appartamento praticamente pieno di cose nuove. Ma, come afferma il protagonista della mia Palissandreide, il mio motto è «non rimpiangere nulla». Una tale inclinazione al mutamento di luogo la si può spiegare in modo romantico: uno zingaro nell'anima. E la si può spiegare su basi psichiatriche. Uno dei migliori poeti del XIX secolo, Konstantin BatjuÜkov, si spostava ininterrottamente e senza apparenti motivi per l'intero continente eurasiatico. Oggi l'hanno visto a Pietroburgo, domani a Vologda, dopodomani a Helsinki, e tempo una settimana è già a Parigi. Nel corso della sua vita per periodi più o meno lunghi è vissuto in cinquanta città. Dei centri più piccoli nessuno ha tenuto il conto. Dove mi condurranno le mie peregrinazioni dio solo lo sa. BatjuÜkov l'hanno condotto in manicomio, dove ha finito i suoi giorni. Con una diagnosi di schizofrenia.

Di cosa ha paura?

Con la radicalità tipica dei russi, penso sempre in termini epocali. Mi dico che i tempi sono maturi, e presto a rimpiazzare il nuovo Medioevo che stiamo vivendo verrà un inedito Rinascimento, ma poi ho paura che queste mie profezie non si avverino, e che trionferà un'assennata, buona ed eterna globalizzazione. Se invece le cose andassero come vorrei, è certo che dovremmo passare prima attraverso un cataclisma, forse una crisi economica di grande portata, simile a quella che ha avuto luogo negli anni Trenta del secolo scorso. In quel momento sulla terra avverrà un ennesimo capovolgimento dei valori, e un bel mattino il professor Eco si renderà conto che il suo sogno si è realizzato: l'ordine delle parole è tornato a corrispondere all'ordine delle cose. Questo mondo rinnovato, risorto, un mondo dal volto umano sarà degno di tutto il meglio che è alloggiato nei cassetti degli scrittori e negli atelier degli artisti.

Il più affascinante dei suoi romanzi, Un po' cane, un po' lupo, è costruito sulla cancellazione dei confini. Praticamente tutti i personaggi del libro sono intrecciati l'uno con l'altro, il cane, il lupo, la volpe, gli uomini, la pioggia, la vita e la morte finiscono per essere la stessa cosa. Il lettore prova un piacere fisico a cercare in ciascuno di essi frammenti e sfumature degli altri. Si può andare ancora oltre su questo terreno?

La Russia è un paese per molti aspetti indeterminato e poco prevedibile. Soprattutto la Russia profonda, la Russia contadina. Lì tutto è in qualche modo impreciso e indefinito. E non si sa mai come cambieranno le cose all'indomani. Non si può avere la certezza di niente e di nessuno e di nessuna relazione. Quel che ci hanno promesso lo si può aspettare per tre anni, o magari fino al secondo avvento. Il tempo di solito non è un limite. Non va di moda portare l'orologio. L'amico di oggi può diventare all'improvviso il tuo nemico. O il contrario. L'indeterminazione della realtà si riflette anche sulla nostra lingua. Noi scrittori non cessiamo di compiacerci e dilettarci del russo. Ne lodiamo la flessibilità e la libertà. Da noi l'ordine della frase non segue in pratica nessuna regola, tutto è lasciato all'arbitrio. È questa generale imprecisione e mancanza di focalizzazione della realtà russa e della lingua a essersi riflessa nel mio romanzo. Inter canem et lupum è un'espressione latina che indica il crepuscolo. E proprio al crepuscolo hanno luogo molti episodi del libro, il che non aggiunge certo chiarezza alla narrazione. Cancellare completamente le frontiere, come lei accenna, è possibile, ma per farlo avrei bisogno di tornare negli spazi aperti di un villaggio russo e di perdermi con la testa nelle sue nebbie, crepuscoli, tempeste di neve e nella confusione delle relazioni umane.

I suoi romanzi sono costellati di una prodigiosa parata dei più stravaganti invalidi e mutilati: qualcosa di simile l'ho incontrato solo nei film di Jodorowsky. Qual è il loro senso?

È possibile che siano il risultato del mio abbastanza esotico soggiorno postbellico nell'impero vittorioso al prezzo di una spaventosa quantità di vite e di arti.

Il suo terzo romanzo, la Palissandreide, incolla il potere sovietico su quello zarista, li contamina e ne rivela la comune essenza. Il romanzo è stato scritto tra il 1983 e il 1984. Oggi appare chiara la natura profetica del quadro che delineava. Qual è la sua opinione in merito?

L'essenza del potere russo e della società non cambia da secoli, e per predire gli eventi futuri non serve grande ingegno, basta dare un'occhiata ai manuali di storia.

La Palissandreide è un romanzo picaresco, memorialistico, erotico, fantastorico. A dispetto del sovraffollamento barocco dei mezzi espressivi rimane perfettamente leggibile. Si ha l'impressione che scrivendolo lei abbia cercato di andare nella direzione del maggiore compromesso ammissibile con le esigenze del mercato, dal quale attendeva di ritorno un successo commerciale che alla fine non c'è stato. Si è sentito in qualche modo ingannato?

Mi ero posto l'obiettivo di scrivere un romanzo-parodia, di prendermi gioco di tutto e di tutti. Mi sono divertito molto a scriverlo e non ho rimpianti per il successo commerciale che non è arrivato, non ci facevo conto più di tanto. Sapevo che per quel che riguarda i soldi uno scrittore del mio genere può fare affidamento solo sulla buona disposizione delle giurie dei premi e sui cicli di conferenze. Ma speravo soprattutto nella comprensione degli slavisti, degli studiosi, mentre proprio molti di questi non hanno capito tante cose del mio libro. Forse neanche quella più importante, ossia il fatto che è tutto una parodia.

Dopo i saggi lirici dell'inizio degli anni Novanta il suo silenzio dura già da più di dieci anni. Tanto che, forse, in uno scrittore come lei anche questo silenzio potrebbe essere considerato un testo letterario...

Tutto, a volerlo, può essere considerato un testo.

In corso di traduzione
SaÜa Sokolov è nato nel 1943 in Canada ed è oggi cittadino canadese. Figlio di un agente segreto, è tornato in Unione Sovietica a quattro anni, dopo l'espulsione del padre. Con il potere sovietico ha ingaggiato una lunga contesa per motivi eminentemente estetici, finché nel 1975, fidanzato con un'austriaca, ha ottenuto il visto di espatrio al termine di un lungo braccio di ferro che ha visto anche l'intervento del cancelliere Bruno Kraiski. Da allora, è vissuto praticamente in ogni angolo del globo, soprattutto negli Stati Uniti, facendo ritorno solo per un anno, nel 1989, in Russia. Al momento vive tra le montagne della Slovenia e quelle del Vermont, dove collabora con la moglie, allenatrice di fama internazionale, alla gestione di una scuola di canottaggio. Il suo primo libro, Scuola di scemi, è stato tradotto in quindici lingue. Poi la prosa di Sokolov si è rivelata troppo ostica per il mercato occidentale, anche se esiste un'eccellente versione inglese della Palissandreide. In italiano, dopo quasi trent'anni di silenzio, è in corso di traduzione presso Salani Scuola di scemi.