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A colloquio con Ljudmila Ulickaja, per il suo “Daniel Stein, Traduttore”, edito da Bompiani
Posted on March 11th, 2010

Presenti all’incontro coi lettori, tra gli altri, la traduttrice Emanuela Guercetti e l’agente letterario della Ulickaja, Elena Kostioukovitch, che riveste un ruolo chiave anche all’interno del libro…scopriamo quale!


In quali circostanze nasce l’idea di un testo così composito e articolato?

“È stato molto difficile trovare la forma adatta, non era possibile raccontare tutte le storie adottando la forma del romanzo tradizionale. Poi ho scoperto che la forma più adeguata, e anche quella più divertente, fosse quella attuale, complessa come i contenuti, difficile come i personaggi, tutti con voci diverse”.

Come ha operato la scelta/selezione delle varie fonti?

“La stesura di questo volume ha richiesto numerosi viaggi in Israele, dove ho incontrato e intervistato le persone che conosceva Oswald Rufeisen, lo straordinario uomo che mi ha spinta a creare il personaggio di Daniel Stein, l’ebreo polacco che riuscì a far fuggire 300 persone dal ghetto di Mir, in Bielorussia, e che poi si convertì al cattolicesimo , diventando frate, e che, infine, in Israele fondò una Chiesa giudaico-cristiana. Ho analizzato documenti veri, mentre altri li ho inventati”.

Insomma, un traduttore nell’accezione più ampia del termine…

“Proprio così: Daniel ‘il traduttore’, non solo perché, con il suo perfetto bilinguismo tedesco-polacco aveva lavorato come interprete per la Gestapo, ma anche - e forse soprattutto – perché, secondo l’etimologia del verbo ‘tradurre’, Daniel “fa passare”, è un “traghettatore di anime”: dalla prigionia alla libertà, dall’isolamento di una religione ad un’altra più ampia.

Insomma, Daniel ha fatto del suo corpo un ‘ponte’ sopra l’abisso incolmabile che separa giudaismo e cristianesimo; uno dei ‘giusti’ sulla Terra”.

Nel testo sono presenti anche alcune delle lettere che lei e il suo agente vi siete scambiate. Ce ne parli più diffusamente.

“Beh, ho dato voce a un numero incredibile di personaggi, tenuti insieme con un abile e difficile “montaggio”, ed ho voluto prendere parte a questo collage di voci inserendo brandelli di vita (una scelta operata, ad esempio, anche in uno degli ultimi libri di Mauro Corona, “Storia di Neve”: tra un capitolo e l’altro descrive quanta fatica gli sia costato completare quel ‘quaderno’ – lui scrive a mano, in quaderni, appunto – che cosa lo abbia fatto fermare per un po’ e così via, ndr).

Del resto il libro è scritto solo dai personaggi, non dall’autrice. Le lettere erano numerose, più di 1000 e comunque diverse al giorno, mentre quelle presenti nel testo sono solo 5, alla fine di ogni capitolo ed indirizzate a Elena Kostioukovitch, per l’appunto, dove faccio un po’ il punto della situazione, mettendomi a nudo con osservazioni psicologiche e autobiografiche”.

Cedendo la parola alla traduttrice, cosa ha provato quando ha posato per la prima volta gli occhi sul manoscritto? Era già consapevole del lavoro che l’aspettava?

“Quando si ha a che fare con la letteratura russa, si è abituati a volumi di una certa mole… Ho ricevuto il manoscritto direttamente da Ljudmila Ulickaja, che vi aveva apposto una dedica di incoraggiamento, consapevole della corposità del testo e degli sforzi che tradurlo avrebbe richiesto. La difficoltà maggiore è stata nella resa delle diverse voci, per non cadere nel pericolo di uniformarle. E poi difficoltà di tipo terminologico”.

Qual è stato l’apporto della scrittrice in soccorso ai momenti di empasse traduttiva?

“Il contatto tra me e la scrittrice è stato costante, così come la collaborazione, l’apporto significativo e indispensabile (traduttrice e scrittrice sono molto simili, quasi in empatia: infatti, alla presentazione, la traduttrice si è rifiutata di fare i complimenti alla Ulickaja, perché ha detto: ‘avendo la stessa visione delle cose e del mondo, è come se li facessi a me stessa’, ndr)”.

a cura di

Anna Borrelli & Giovanna Caridei


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