http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=134410&PRINT=S n. 302 del 2006-12-22 pagina 28

IN FRIGO VERITAS L’America scopre la rucola
di Stefania Vitulli

Addio patatine e hamburger: nel suo «United States of Arugula» David Kamp mostra come è cambiata la cultura del cibo in America
Hamburger, patatine, Coca-Cola e massimo tasso di obesità infantile: se è ancora solo questa l’immagine che avete della cultura alimentare degli Stati Uniti, vi siete persi gli ultimi trent’anni di rivoluzione. Anni in cui critici, chef e gastronomi hanno condotto le masse lontano dal mondo dei cibi piatti, industriali e ripetitivi e le hanno avvicinate al paradiso degli ingredienti di stagione, variati e sani. Anni in cui le casalinghe americane hanno appreso l’esistenza - in ordine cronologico - della cucina francese, delle fattorie biologiche, della possibilità di conquistare gli invitati con un’insalata (checché ne dica Homer Simpson) e infine degl’immancabili infestanti: sushi e rucola. Sono gli anni di questo mutamento del gusto, delle abitudini e del contenuto del frigorifero americano quelli narrati da United States of Arugula (la rucola, appunto). How We Became a Gourmet Nation, di David Kamp, appena uscito negli Usa (Broadway Books, pagg. 394, $ 26).
«Questo è un libro su come il cibo in America sia diventato migliore», scrive Kamp nella prefazione. Un libro da cui c’è molto da imparare dunque, in un momento in cui per gli alimenti nostrani in libreria arrivano bordate come La leggenda del buon cibo italiano di Paolo Conti (Fazi, pagg. 263, euro 15), «piccola biblioteca degli orrori alimentari» reperibili nei supermercati del nostro Paese, dai «4 Salti in Barella» al würstel al tonno, tutti targati Italia dalla produzione alla confezione; un momento in cui deve essere una russa attenta osservatrice del nostro costume, Elena Kostioukovich, a insegnarci Perché agli italiani piace parlare di cibo (Sperling&Kupfer, pagg. 560, euro 22), prefata da Umberto Eco, di cui è la traduttrice. Prefazione che svela come spesso però noi del Belpaese facciamo fatica a far duecento metri per un trancio di pizza, mentre sono gli stranieri i veri gourmet, disposti a macinar chilometri per apprezzare tartufi o bagna cauda.
Lungi da David Kamp - newyorchese columnist di Vanity Fair e GQ da oltre un decennio e titolare proprio su Vanity dell'esilarante rubrica Food Snob's Dictionary, con cui ha contribuito a «smontare» il cibo di culto e a stimolare il culto del cibo - affermare che un popolo che ancora cinquant'anni fa considerava la «peet-za» un piatto alieno e il mangiar fuori un rito riservato ad occasioni davvero speciali (ritenete esclusi una volta per tutte dalla massa storica quelli che Kamp chiama «piccola minoranza di avventurieri culinari urbani»), possa oggi bagnarci il naso quanto ad attenzione a qualità, varietà e capacità gastronomica. E tuttavia Kamp tenta l'avvicinamento: «In Paesi come Italia, Cina o Giappone, parlare di cibo è sempre stato naturale. Da noi invece lo si trovava sciocco. Ci si sedeva a tavola e tanto bastava. Ma tutto questo è cambiato e cambierà ancora», promette Kamp. «Perché ormai il cibo di qualità fa parte della nostra cultura».
Il volume prende l’avvio da un pizzico di storia della cultura alimentare americana del secondo dopoguerra, periodo in cui iniziavano ad affermarsi i «Big Three», coloro che meriterebbero il Mount Rushmore nella culinaria statunitense, poiché «saltarono il fosso esistente tra i ghetti della gourmandise snob e i fornelli delle cucine popolari»: James Beard, Julia Child e Craig Claiborne. A molti di noi questi nomi non dicono nulla, è ovvio, ma trattasi dei pilastri dell’attuale food establishment.
Beard, grande avvocato della tradizione proteica Usa e figlio di un locandiere dell’Oregon, scrisse i primi, numerosi libri di ricette sulle potenzialità fino ad allora inesplorate di un ottimo barbecue, libri con cui ipnotizzò il maschio americano e lo trascinò quantomeno in giardino, se non in cucina, in quelle deliziose scenette domenicali che abbiamo visto moltiplicarsi infinite volte su grande e piccolo schermo. Julia Child, una gigantessa di Pasadena con zero esperienza nella ristorazione, ebbe la folgorante idea di smitizzare la cucina francese, sbucciarne l’aria sofisticata e portare la nuda cipolla così ottenuta verso ottime zuppe di classe: il tutto grazie a numerosissimi passaggi televisivi e soprattutto al suo eterno bestseller Mastering the Art of French Cooking, volume meglio noto come «il Julia», che piombò nelle cucine americane con la stessa irruenza ed efficacia con cui il rapporto Kinsey si infilò nelle camere da letto (e i parallelismi tra rivoluzione sessuale e alimentare non finiscono qui: secondo il New York Times, negli Usa l’apprendimento dell’utilizzo dell’olio extra vergine di oliva si può tranquillamente paragonare a quello della pillola contraccettiva).
Craig Claiborne, infine, fu più o meno l’inventore della figura del critico gastronomico e trasformò lo scrivere di cibo in un braccio armato del giornalismo, firmando migliaia di recensioni «stellate» per il NYT, che raccolse nell’epocale New York Times Cook Book, pubblicato nel 1961.
Se grazie a Beard, Child e Claiborne superiamo il boom e arriviamo agli anni Settanta, spetterà ad una certa Alice Waters traghettare gli americani dalla capacità tecnica alla qualità degli ingredienti, dalla East Coast legata alla Francia alla West Coast legata alla California cuisine, in una missione «politica» di controcultura alimentare rivolta alle donne: che imparassero che cucinare bene cibo sano poteva rivelarsi una forma di protesta, per opporsi all’egemonia della dieta industriale standardizzata americana; missione rappresentata dal ristorante «iconoclasta» della Waters, «Chez Panisse, Berkeley», ai cui tavoli si illuminano le masse sul valore radicale dell’insalata e del cibo biologico: «Non si serve Coca-Cola da Chez Panisse. Tuttavia, il ristorante offre aranciate e limonate italiane».
Dopo gli anni della virtù giunsero quelli dell’edonismo, in cui boomers, yuppies e altri segmenti rappresentativi della borghesia nativa si catapultarono nei ristoranti, oppressi dal superlavoro. Gli anni Ottanta e parte dei Novanta, anni di un mondo inimmaginabile senza chef, anni in cui negli Usa iniziano a prosperare cuochi europei che da un ristorante di successo creano una catena e dalla catena un logo, da appioppare senza mezzi termini a prodotti doc e dop su scala industriale, gli anni insomma in cui i soldatini della buona tavola - alcuni nomi? Zucchini, broccoli, aceto balsamico, ruchetta, parmesan e pasta primavera - abbracciano il capitalismo, in una grande abbuffata soprattutto mediatica, in cui l’ultimo arrivato poteva conquistare un’egemonia cultural-gastronomica tanto scintillante quanto effimera.
Fin qui la storia degli «Stati Uniti della Rucola», la gourmet nation, che approda ai giorni nostri con la metamorfosi del cucinare da dovere domestico a passatempo culturale del tutto compiuta. Tanto che gli americani possono e vogliono azzardare l’escursione in altri territori gastronomici che non siano i classici francesi, italiani, californiani, i decolpevolizzanti biosalutisti o le enclave del cibo locale, che Stato per Stato propinano la propria ricetta originale per il giorno del ringraziamento. Come infatti insegna Anthony Bourdain - lo chef del bestseller Kitchen Confidential (Feltrinelli), lo «scandaloso» volume di memorie che sfatava il mito secondo il quale le cucine professionali sarebbero luoghi di pace in cui in sottofondo si ode un concerto di Vivaldi - nel suo ultimo libro, Avventure agrodolci. Vizi e virtù del sottobosco culinario (Feltrinelli, pagg. 300, euro 16, in libreria da ieri), il ventunesimo secolo segna il trionfo del melting pot anche in cucina: è il momento di godere di ricette asiatiche, brasiliane o spagnole, splendidamente preparate nei megahotel e nei bistro di Las Vegas, tra una puntata e l’altra alla roulette.
Ma David Kamp, da ottimo osservatore del costume, non poteva non dedicare il suo ultimo capitolo alla Fast Food Nation, quella dell’omonima inchiesta di Eric Schlosser (Tropea) sulle multinazionali del macello e degli aromi artificiali, e degli «unhappy meals» di Super Size Me, docu-diario sconvolgente in cui Morgan Spurlock si trasforma nell’uomo hamburger. Il titolo del capitolo, «Verso un futuro McSostenibile», la dice lunga sull’ottimismo di Kamp, il quale sottolinea i grandi passi avanti di McDonald, che ormai negli Usa è in grado di servire, oltre al sushi, 16 tipi di insalata (sulla passione accecante degli americani per insalata e company, si veda anche l’illuminante Organic Inc. di Samuel Fromartz, Harcourt, pagg. 294, $25). Tuttavia secondo Kamp l’abbinamento rucola e patate fritte non è sufficiente. Il cerchio si chiuderà solo quando sarà lo stesso McDonald a proporre cibo biologico «in alternativa» agli hamburger. Speriamo, quando quel tempo verrà, di non averne mangiati troppi per essere in grado di apprezzare il cambiamento.


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